Feiez

Feiez

Da Vite Bruciacchiate – Ricordi confusi di una carriera discutibile

Il nome di Feiez
di Faso

Una cosa che faccio fin da bambino è inventare un sacco di soprannomi alle persone a cui voglio bene. Paolo Panigada è una delle persone a cui ne ho affibbiati di più.
Quando Paolo è entrato nel gruppo, gli abbiamo dato il nome d’arte Mu Fogliasch. Mu Fogliasch si è velocemente trasformato in Mon FogliaSfogliaFoyascFognakFegnek ed infine Feiez, che sarebbe diventato il suo nome ufficiale di battaglia.
“Feiez” ha rappresentato una specie di cellula primigenia, dalla quale la fantasia e lo storpiamento verbale prendevano il via alla ricerca di nuove invenzioni. Così, dopo neanche un anno di frequentazione, lo chiamavo già Filz. Filz nasceva da un salame con un nome che ci faceva molto ridere: la filzetta.
Sulla filzetta ben presto è iniziato quello che si potrebbe definire un “processo di tormentonizzazione”, e cioè la creazione di un mondo immaginario in cui il soggetto ha una sua storia personale più o meno particolareggiata e surreale. Nel caso della filzetta, ad esempio, la pelle aveva un ruolo importantissimo: chi mangiava anche la pelle, era un ribelle. In che senso? È così e basta: se mangi la filzetta con la pelle, sei ribelle; se non mangi la pelle, non sei ribelle. Dopo un po’ la filzetta è diventata la “velzetta”, un salame che non esiste ma che comunque ha la pelle e che quindi può svelare se sei ribelle o no. E Feiez è diventato il Vèlz. Vèlz si è subito trasformato in Véseghel, senza un perché. Nell’estate del ’92 io e il Véseghel eravamo in vacanza all’isola d’Elba con altri amici, e un pomeriggio, semimmersi nell’acqua, giocavamo col pallone ad “asino”. Il gioco classico, si sa, prevede che ci si tiri la palla disposti in cerchio, e che chi sbaglia guadagni una alla volta le lettere della parola “asino”. Ma asino, come parola, non ci piaceva, e allora abbiamo deciso che si diventava tutti “véseghel”. Non solo: chi sbagliava doveva entrare per penitenza nel cerchio e ballare, mentre gli altri cantavano in coro una canzone dal sapore brasileiro di cui ricordo esattamente il testo:

Vesegheu Vesegheu / tu ti manji filzao / e porquè
sei ribenji / manji tutta a pellao.
Vesegheu Vesegheu / tu ti manji filzao / ma se non
sei un ribenji / non manjare pellao.

Il bello è che nel team acquatico c’erano tre ragazze appena conosciute in spiaggia che cantavano e ballavano il Vesegheu assieme a noi.
Il Véseghel, finita la vacanza, si era già trasformato in Visenthal Visent, o anche Visent, ed infine un po’ Vizzent, che è il protagonista della fiaba inventata da Elio, Natale a casa Vizzent. Qualche tempo dopo è scattata una fase francofona, e Feiez è diventato il Foyage. Il Foyage era un prodotto immaginario capace di creare un velo protettivo sulla superficie su cui veniva spalmato, e “Foyage, protegge!” era lo slogan della campagna pubblicitaria ideata per lanciarlo sul mercato.
A quei tempi ero musicalmente ottuso: avevo l’apertura mentale di un cardinale del Cinquecento e pensavo che la musica fosse quella che ascoltavo io, e il resto eresia da ardere sul rogo. Una volta ho sentito Peter Gabriel affermare che una certa arroganza è la caratteristica peculiare dei giovani artisti. Sarà… Comunque ero un pirla. Il Foyage invece era un fruitore di musica a 360°. Nella sua collezione di lp e cd potevi trovare qualsiasi tipo di espressione musicale di qualità, e lui te li faceva ascoltare tutti al momento giusto. Durante una trasferta in auto piazzò nel lettore il The Best degli Earth Wind & Fire, che consideravo disco music di merda, e a fine viaggio ero diventato un fan della band. Quando ascoltavamo insieme la musica non la ascoltavamo semplicemente: la vivevamo. Vuol dire mimarla, sentirla sulla e con la pelle (senza essere ribelle), anticipare ogni fill di batteria, i fiati, gli assoli di chitarra, i giri di basso, fare la “faccia degli accordi”. È difficile spiegare cos’è la faccia degli accordi. Un accordo alterato di estrazione jazzistica genera un’espressione del volto ed una postura del corpo molto diverse da quelle del sol minore nell’intro di Shine on You Crazy Diamond dei Pink Floyd. Un buon esempio è il suono “vox humana” del Mellotron usato dai Genesis: si mima con la bocca che dice “oooooh” e le mani protese con le dita larghe. Recentemente con Elio e Jantoman abbiamo stabilito che il vero cultore dei Genesis si riconosce dalla capacità di fare quella faccia lì. Ai tempi non conoscevo Zappa, e il Foyage mi regalò “Joe’s Garage” con una dedica scritta a pennarello sulla copertina del cd: “Che Foyage ti protegga!” Mi ha protetto un sacco di volte. Poi è venuto il Beaujolais, che proprio come il vino francese aveva due caratteristiche: era “nouveau” ed anche “arrivé”.
In quel momento della nostra vita eravamo tutti single o quasi. Essere single non vuol dire necessariamente essere felici, ma se stai lavorando al tuo disco da mesi e riemergi dallo studio Psycho alle tre del mattino dopo esserci disceso alle dodici del giorno precedente, essere single è vantaggioso. In quella condizione di singolitudine, il Beaujolais aveva organizzato a casa sua una cenetta con due ragazze di Crema, nel senso della città, non quella pasticcera.
Cenetta perfetta, le giovani donne contente e bendisposte, magari si potrebbe anche limonare. Invece noi vitelloni giochiamo due ore a tradurre in inglese alcune espressioni tipiche del dialetto lombardo, che culminano in una inventata dal Beaujolais: “Hello Josef!” Sarebbe a dire? “Ciao Pep!” E giù a ridere.
Poco dopo le tipe se ne vanno senza aver limonato con noi.
Mentre lavoravamo a “Esco dal mio corpo e ho molta paura” è nata una generazione anomala di soprannomi che prendevano inaspettatamente le mosse da “Panigada”. Feiez è diventato così il Punagedi, o anche Punajedi (da cui il film mai girato da George Lucas Il ritorno del Punajedi), per poi approdare a Punène. Punène aveva solo una caratteristica particolare: mostrava a tutti il pène. Ok, ma poi cosa accade? Niente, mostra il pène e finisce lì. Attenzione, bisogna pronunciare tutto con la “è” aperta tipo Cher: punène-pène. Feiez ha cantato nelle vesti di Brother Punène nella canzone Faro.
In questo periodo vede la luce anche un soprannome fantastico che è nato dal nulla, come per incanto: Mondo. È stato uno dei miei preferiti, forse perché non è neanche un nome strano: è una parola comune che racchiude in sé tutto un… mondo!
Successivamente appaiono Boglia e Bogliasco (proprio come la cittadina), che convivono serenamente dividendosi la scena. Boglia mi sembra fosse un richiamo fonetico all’antico Fogliasch, però con uno sviluppo più ampio: il Bogliaphone. Brevettato dal dott. Boglia, il Bogliaphone è uno strumento favoloso di altissima tecnologia che può fare tutto. Non riesci a programmare un suono di tastiere? Usa il Bogliaphone. Non si accende l’automobile? Collega il Bogliaphone al cruscotto e scoprirai cosa c’è che non va.
Poi arriva il periodo dei fichi, e il nuovo nome di Paolone è Fufafifi. Non riesco a ricordare come si è generato; comunque non contiene “fichi”. Non li contiene perché i fichi sono dominio del suo temuto rivale: il Fufafichi. Il Fufafichi è un essere fantastico, tipo l’unicorno o la fenice; nessuno sa com’è fatto e di lui si conosce solo un aspetto inquietante: mangia tutti i fichi, ma proprio tutti. Anzi, se hai lasciato dei fichi in giro, soprattutto i fichi fioroni, affrettati a mangiarli, perché potrebbe arrivare il Fufafichi e spazzolarteli in un attimo. L’unico modo per arginare l’insaziabile Fufafichi è circondarsi di fichi d’India, che lui teme tantissimo e che gli fanno un effetto tipo Superman con la kriptonite.
Mentre lavoravamo a “Eat the Phikis”, qualsiasi tipo di problema poteva essere risolto con i fichi. Il suono del basso non ti piace? Prova a mettere un fico sull’amplificatore e vedrai che migliorerà. Sei giù di voce? Fai un impacco alla gola con i fichi. Fichi immaginari dappertutto. Una volta, dopo aver nascosto un paio di fichi veri dietro gli altoparlanti delle casse giganti dello studio A, mi lamentavo per qualche difetto di risposta in frequenza. Il Fufafifi va a controllare le casse, trova i fichi e senza battere ciglio dice: “Ho trovato il guasto: è colpa del fico fiorone, se è maturo non risponde oltre i 16.000 hertz.” Abbiamo dovuto sospendere la session da quanto ridevamo. Ci ritrovavamo sovente da soli la mattina in Psycho per incidere linee guida di basso, percussioni o fiati. Non mi è più capitato di lavorare in studio in quel modo, con un feeling che non riesco a spiegare a parole, entusiasmandomi per una nota giusta al momento giusto, in un continuo interscambio di idee e sperimentazioni senza limiti. Cappuccio e brioche al bar per far riposare le orecchie? Ok, poi si ricomincia.
Una sera, io Elio e Feiez stavamo passeggiando per le vie di Crema, quando un ragazzo saluta Feiez in una maniera inaspettata: “Ciao Panino!”, ed Elio: “Come ti ha chiamato?”, e Feiez: “No, niente… È un nomignolo di quando ero piccolo, sai, Panigada… Panino.”
E noi: “Ah. Ok. Che facciamo adesso, Panino?” “No, dai, Panino no!”

Forza Panino!

 

Mio padre ha i baffi
di Rocco Tanica

Mio padre non ha i baffi.
L’antivigilia di Natale di qualche anno fa ricevetti la notizia che era morto. Era notte, lo avevo lasciato qualche ora prima ed ero in aereo. Arrivò una hostess, credo la stessa che poco prima avevo invitato per la settimana seguente al concerto di Capodanno degli EelST. Sarebbe venuta con sua sorella e dei colleghi, aveva detto. Poi quel concerto non ci fu. Mi consegnò un foglio di bloc-notes a quadretti su cui c’era scritto “telefonare urgentemente” e poi il numero di mio fratello. Non c’era modo di telefonare. Chiesi alla hostess se poteva chiedere chiarimenti via radio, dato che proprio via radio avevano ricevuto il messaggio da Milano. Passò del tempo, non so dire quanto, e lei ritornò con un ufficiale che, parlando un italiano stentato, mi chiese: “Father in italiano significa ‘padre’, vero?” E poi: “Mi dispiace.” Si tolse il berretto, lo mise sotto il braccio sinistro e mi strinse la mano.
Quel viaggio durava sette ore. Stranamente, l’aereo era semivuoto, così trascorsi parte del tempo camminando lungo il corridoio. I pochi passeggeri erano stati discretamente informati e cercavano di non badare a me. Qualcuno mi chiedeva se volevo parlare: ringraziavo e dicevo di no. Le hostess mi fecero sedere davanti, in una zona disabitata, e mi offrirono da bere e da fumare. Sull’aereo non si poteva fumare. Loro dissero che potevo e aprirono una stecca del duty free. Fumai qualche sigaretta con loro.
Trascorsero due o tre ore, e l’ufficiale tornò con un foglietto uguale al precedente. Father era stato cancellato a penna e corretto in Feiez. Avevano trascritto male. Non father, ma Feiez.
Arrivato a destinazione mi dissero che potevo tornare a casa con lo stesso aereo, ma che dovevo comunque passare i controlli doganali e rifare tutta la procedura d’imbarco. Lasciai le mie cose in cabina, uscii dall’aeroporto e telefonai a mio fratello Marco, che mi disse cos’era successo. Chiamai casa. Chiamai qualche amico. Ero calmo e non sentivo dolore. Incontrai le persone che erano venute a prendermi per portarmi in hotel e spiegai loro che dovevo annullare il viaggio. Firmai qualche carta e ripartii per Milano. Durante il volo provavo imbarazzo per la sensazione di distacco che non mi faceva versare lacrime. Ore prima, alla notizia della morte di mio padre, avevo pianto a lungo, mentre in quel momento riuscivo anche a pensare ad altro. Feci un po’ di “Settimana Enigmistica”. Guardai un film con Steve Martin e dormii.
All’aeroporto vennero a prendermi Claudio, Marco e Faso. Non ricordo chi altro c’era. Forse Elio. Nessun altro, credo. Mille persone, credo. Andammo a casa di Claudio e c’eravamo tutti. Rimanemmo insieme qualche ora.
Qualche giorno più tardi, e fino ai primi giorni dell’anno nuovo, mio padre aveva i baffi. Non li ha mai portati, per lo meno da che ho memoria di lui. La prima cosa che pensai quando lo vidi fu che somigliava al cattivo di un film con Eli Wallach.
Gli chiesi perché. Mi rispose che voleva fare festa per l’augurio di lunga vita che aveva ricevuto.
Seppi più tardi che avevano già cominciato a crescergli quando era andato a salutare Feiez all’obitorio.
Non sapevo che era stato lì. Io all’obitorio non ci sono andato. Non ho voluto vedere Feiez in quel luogo vergognoso in cui un regolamento vergognoso mi aveva obbligato a vedere mia nonna anni prima. Non sono sceso là sotto; sono orgoglioso degli angeli che lo hanno fatto e mi inchino di fronte all’aura di luce che hanno lasciato in quella cantina. Il mio ricordo di Feiez è quello di un uomo che riusciva a sudare ettolitri e a finire i concerti trasfigurato, ma che quando rispuntava dal camerino era ritornato ad essere un fascinoso signore vestito di nuovo con un sentore di buono negli occhi e sulla pelle. Un signore di classe superiore, che si era già tirato i capelli indietro con le mani prima di legarli con l’elastico rosso. Ogni tanto ci davamo una controllata reciproca (“Sono a posto?” “Ok.”) prima di affrontare i saluti, gli amici, la gente nel backstage, prima di “Scusa facciamo una foto insieme, ti ricordi ci siamo conosciuti al concerto di Rovigo...”
Io mi sono congedato da quel signore che avevo lasciato sul palco una settimana prima, non da quello messo in una cantina come una cosa da nascondere. Poi capii cos’era successo mentre ero su quell’aereo. Feiez mi aveva salvato. E mi aveva fatto il dono più prezioso che io abbia mai ricevuto. Mi aveva fatto dono della morte di mio padre. E della possibilità di fare camminare il tempo a ritroso. Come in Ritorno al futuro, il mio film preferito di sempre. Il mio amico aveva cambiato il Tempo facendolo ripartire da capo. Perché in quelle ore mio padre era morto sul serio. Non era solo credibile, non era solo plausibile: era vero. Avremmo avvertito i parenti, organizzato il funerale. Mentalmente avevo ripassato le letture possibili che qualcuno avrebbe recitato in chiesa. Non me ne veniva in mente nessuna.
Avevo ricevuto una delle notizie più terribili che uno possa ricevere, e poi ero stato graziato. Potevo tornare indietro. Tornare indietro e ritrovare mio padre vivo. Potevo ancora dirgli e sentirmi dire le cose che mancavano. Sentirmi raccontare da lui dell’università, di cose di mio nonno che non avevo mai saputo. Di quando lui e mia madre erano fidanzati. Raccontargli di me e dell’amore che porto alla mia famiglia. Ritrovare la mia famiglia, intatta. Vedere mio padre con i baffi.
Ancora oggi non provo dolore per Feiez. Solo gioia, e gratitudine. Per tutto quello che ho imparato da lui e con lui. Non c’era niente di irrisolto, niente di non detto. Sarei potuto morire io un anno prima e non sarebbe cambiato niente. Tutto era al suo posto ed è al suo posto ancora oggi che è cambiato tutto. Con Paolo c’è sempre stata solo pace, e una musica bellissima che fa più o meno così: