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"Rocco Tanica recensisce..."

Una precisazione: non mi metto a fare il critico musicale; non amo il genere e soprattutto non padroneggio aggettivi in quantità sufficiente (liquido, vigoroso, primordiale, croccante e altri che ho visto utilizzare nelle recensioni dei dischi). Ultimamente, però, mi permetto di segnalare lavori diversi che per motivi inaspettati mi hanno fatto allungare l’orecchio un po’ come alle Yavanna a X-Factor quando facevano le elfe. È capitato con il Quartetto Nazionale qualche tempo fa; mi ricapita con un vecchio amico che mi fa una certa impressione ritrovare su supporto fonografico, perché con lui ho condiviso una stagione speciale in cui i dischi che ascoltavamo erano solo quelli degli altri, le spalline delle giacche erano imbarazzanti e il muro di Berlino pareva duraturo. Di lui si racconta qualcosa in “Vite bruciacchiate”, una raccolta di storielle degli EelST, alcune facete e altre meno. Nel capitolo dedicato al batterista Cosma (Roberto Sgorbati) si parla della fiorente scuola carbonara; carbonara sia nel senso di semisegreta che nel senso di Carbonari (piazza), in cui muovevano i primi passi diversi musicanti tra cui Cosma, il sottoscritto e Roberto Ciambella. Roberto – cito da VB – è “un musicista che scriveva [scrive, n.d.r.] canzoni molto belle che io gli rovinavo con arrangiamenti irritanti”. Tutto assai vero. Era proprio così: belle le canzoni, forse un po’ naïf per i miei gusti saccenti dell’epoca, e fuori luogo i miei arrangiamenti. Nel senso che il me stesso dell’epoca fuoriusciva, espettorato fresco fresco, dal Conservatorio di Milano; ed era saturo, quel me stesso, di nozioni errate che potremmo riassumere in “questo è esatto quindi è bello, quest’altro è inesatto quindi è brutto”. Per cui, esattamente a metà strada tra il desiderio di assaggiare musica nuova e l’intossicazione accademica, provavo a “modernizzare” – termine e procedura orrendi – le canzoni acustiche folk-rock di Roberto. Come? Con gli ingredienti che lui stesso mi aveva fatto conoscere (il pop-jazz di Al Jarreau, la temibile musica intricata dei Yellow Jacket, le eccezionali buone maniere del George Benson cantante) senza riuscire però a staccarmi dalle convinzioni drastiche frutto degli studi recenti; insomma mi imponevo di arrangiare le parti vocali evitando le quinte e le ottave parallele come se si trattasse di un’armonizzazione classica, e al contempo non mi accorgevo che i cori più belli del pop sono pieni zeppi di “errori” del genere; tentavo di evitare le apparenti incongruenze ritmiche che i miei prof mi avrebbero segnalato in rosso in quanto blasfeme e non mi rendevo conto che tutta la musica che andavo scoprendo, da Zappa a Pete Townshend, si fondava su quel genere di anomalie. Intendiamoci, la musica di Roberto è più vicina a CSN&Y che a Keith Moon, ma tutto il precedente ed intricato ragionamento, riassunto in breve, significa: all’epoca ero restìo a fare 1 + 1 = 2; preferivo fare 139 – 137 = 2, che fa più scena e ti dà un’aria competente. Roberto invece faceva 1 + 1 e il buon risultato è che, nonostante le mie proposte arzigogolate, alla fine le sue canzoni vincevano; prevaleva la chitarra acustica sulla mia Yamaha DX7, prevaleva la semplicità quasi surreale dei testi sulle mie pretese di approfondimento, prevaleva l’istinto sull’accademia di ‘sto par di palle. Più o meno venticinque anni dopo quegli eventi, Roberto ha riunito vecchie canzoni e nuove canzoni in un disco di cui volevo criticargli la copertina e la scelta di alcune tracce ma poi non l’ho fatto, così da fingere che il mio carattere fosse migliorato nel tempo. Ma per me è stato bello ritrovare una schiera di amici che non frequentavo da un po’; molti di essi sono musicisti e molti sono canzoni. I musicisti: Lucio Bardi, Massimo Spinosa che è uno dei miei insegnanti di riferimento e ha arrangiato questo disco, Paola Folli e Lola Feghaly che sono le mie muse del belcanto, Silvio Pozzoli e tanti altri. Le canzoni: la mia preferita era e rimane “Puerto Escondido”, nata molto prima del film omonimo e molto dopo il luogo geografico, e della quale Roberto ha la premura di definirmi coautore anche se ho fatto davvero poco a parte suonarci. E poi c’è “È così che si fa”, che dà il titolo a tutto il lavoro ed è una di quelle che mi fa innervosire, come certe di Pezzali, perché ha il dono dell’immediatezza e del suono sorridente, che all’alba dei 46 ancora non possiedo. Lo stesso dicasi per “Scarpe rosse”, gioiellino acustico che sembra una ghost-track da fine album e invece è viva e ha pure un bel colorito. E poi mi piace “Girovagando”, che mi fa da ansiolitico quando sono ansioso e meno male che non esisteva quando suonavamo insieme se no avrei proposto modifiche discutibili mentre invece va bene così com’è; nelle intro faccio una cosa con un synth il cui suono è copiato da “Mornin’” che era dal 1983 che volevo copiarlo (per i malati, http://www.youtube.com/watch?v=a5TmTGkdjpE a 2:54). Poi ce ne sono altre, ma io le conosco già quindi ascoltatele voi se no cosa ci state a fare. Roberto Ciambella, “È così che si fa”. www.myspace.com/robertociambella http://it-it.facebook.com/pages/Roberto-Ciambella/147185605896